CONTRIBUTI


● FU IL NOSTRO 11 SETTEMBRE

Quel botto l’ho risentito tante volte, gli anni dopo. Almeno tutte quelle in cui mi sono occupato di terremoti, come in Umbria o in Abruzzo, o di attentati da macellai, come a Nassirya. Ma la volta che ha rimbombato nella testa è stato quando gli aerei della follia e della esaltazione hanno atterrato le Torri Gemelle.
Via dei Georgofili è stata il nostro 11 settembre, con qualche anno di anticipo. In entrambi i casi un attentato che nei primi minuti pareva senza senso e che poi un senso, tragico, lo avevano. Quella bomba è stata la perdita dell’innocenza per una città che, a dire il vero, proprio innocente in senso stretto non è mai stata. Ma che pensava di vivere e sopravvivere a qualsiasi avversità, forte delle sue origini di supremazia nelle arti e di un tessuto civile ammirato ovunque, e soprattutto di godere di una sorta di intoccabilità.
La guerra aveva risparmiato Ponte Vecchio. Figurarsi se poteva succedere di peggio. Forse, come ogni buon fiorentino, fu questo ragionamento a farmi sperare (sperare?) che davvero si trattasse di una fuga di gas. Nonostante i morti e la devastazioni restava, sebbene per poco, la speranza che non fosse stata una decisione dell’uomo, ma del destino, a causare quell’inferno. Le prime ore dopo l’alba spazzarono via quel filo di illusione. E a farne definitivamente giustizia furono le indagini di uomini coraggiosi che condussero un’inchiesta che, alle prime, ci sembrava fantascientifica. Che c’entra Firenze con la mafia? È roba lontana, di altre regioni e di altre ragioni. E, se può esserlo, la ferita è stata ancora più profonda, più difficile da rimarginare, quando una dietro l’altra come tessere di un domino, è stato ricostruito il chi ed il come, forse anche il perché, di un’azione simile. Forse è rimozione, o forse perché la memoria è meno antica, sebbene di poco, ma più che i calcinacci e la polvere è l’aula bunker di Firenze che mi viene subito in mente pensandoci. Le gabbie degli imputati, i paraventi, o paraniente, dietro ai quali i pentiti rivelavano schemi e logiche da brividi, la cocciutaggine di Vigna e di Chelazzi e degli investigatori al lavoro tra centinaia di faldoni. Tutto questo non ridà la vita, così come le pietre si rimettono al loro posto e le persone no, ma almeno ci aiuta a capire perché sia stato possibile svegliarsi nella notte con il cuore in gola e gli orecchi che, come il cuore, fanno ancora male.

Stefano Fabbri
Capo Redattore Ansa Toscana

                                                                                                                                        



CATERINA È SEMPRE CON NOI

Avevamo già congedato l’ultima ribattuta del “Corriere della Sera” quando la notte del 27 maggio di venti anni fa arrivò al giornale la prima notizia: “Esplosione agli Uffizi”. Era l’inizio di un incubo: i tentativi di capirne subito qualcosa di più; la telefonata a casa, di là d’Arno, ma a due passi; le voci sullo scoppio di una bombola, i primi sospetti di qualcosa di assai più grave e poi la conferma: “E’ scoppiata una bomba”. Un attentato. Nel cuore di Firenze. Accanto a Palazzo Vecchio, alla Galleria che tutto il mondo conosce e ama, con i suoi capolavori. Com’era possibile? “C’è stato un crollo in un’ala del museo, si temono morti e feriti”. Com’era possibile?
Ero a Milano, eppure mi pareva di essere dall’altra parte del pianeta. Lontano, sgomento, smarrito. Tra me e me dicevo: a Firenze no, nella mia città no, agli Uffizi no. Non mi sembrava neppure concepibile che qualcuno, per qualsiasi motivo, avesse fatto saltare per aria la casa comune di Michelangelo, di Giotto, di Botticelli. Come se la storia dell’umanità e la vita dei templi che ne conservano la bellezza fossero vaccinati contro stoltezza e ferocia. Non mi pareva vero. Invece lo era. Il giorno dopo evitai la tentazione  di salire sul primo treno e lavorai come sempre in via Solferino, nell’ufficio centrale dei capi redattori: ero più utile lì che in via dei Georgofili, dove arrivarono gli inviati speciali. Sul “Corriere” del 28 il titolo a tutta pagina diceva: “Tornano le stragi, morte a Firenze”. E sotto analisi, reportage, interviste. Soprattutto la denuncia agghiacciante del ministro Mancino: “Terrorismo mafioso”. Cosa nostra, a Firenze. Com’era stato possibile?
L’emozione saliva davanti alle immagini delle distruzioni, dei soccorsi, dei corpi. Massimo Sestini aveva fotografato un vigile del fuoco mentre teneva in collo la piccola Caterina, 50 giorni, la vittima più piccola insieme con la sorellina Nadia, di 9 anni.   Adesso quella foto ce l’abbiamo nella sede del “Corriere Fiorentino”, sul lungarno delle Grazie. Non è la sola. C’è anche la fiaccolata che riempì piazza della Signoria nel primo anniversario di quel giorno indimenticabile. Si vede una grande folla e la si immagina matura e consapevole, soprattutto determinata:  “Mai più”.  E sembra di risentire i rintocchi della campana che dall’alto della torre di Arnolfo, da quella notte,  ricordano  ogni anno i cinque caduti del 1993. Caduti che evocano altre memorie, altre stagioni, altri rintocchi, tutti i morti per mano dei nemici di ogni diritto e della libertà di ciascuno di noi.
All’una e quattro minuti del 27 maggio c’è sempre tanta gente che torna sul luogo della strage per sfilare in un corteo muto che si conclude con le note del “Silenzio”, davanti ai gonfaloni con le autorità e ai labari dei volontari fiorentini, sempre presenti con le loro divise per dire: “Noi ci siamo”. E’ l’Italia migliore, che altre Italie hanno cercato di travolgere. Senza mai riuscirci. Neppure ai Georgofili.

Paolo Ermini
Direttore del Corriere Fiorentino


                                                                                                                                           

● LA MAFIA E I BAMBINI

Nadia aveva 8 anni e mezzo. Sua sorella Caterina aveva appena 50 giorni. Era nata il 6 aprile 1993. Era stata appena battezzata. Tutte e due sono morte, insieme con i loro genitori, Fabrizio Nencioni e Angela Fiume, nello spaventoso attentato che il 27 maggio 1993 distrusse via de’ Georgofili e devastò il cuore di Firenze. Angela, la loro mamma, era la custode dell’Accademia dei Georgofili, che crollò per effetto dell’esplosione di un ordigno composto da 250 chili di tritolo, T4, pentrite e nitroglicerina. La bomba era nascosta in un Furgone Fiat Fiorino parcheggiato sotto la Torre de’ Pulci, sede dell’Accademia. Mentre Nadia e Caterina morivano schiacciate dalle macerie, nel palazzo di fronte uno studente di architettura di 22 anni, Dario Capolicchio, veniva sopraffatto dalle fiamme sprigionate  dall’esplosione.
Nei film sulla mafia, e soprattutto nella celebre serie del “Padrino”, la violenza è cosa fra uomini. E’ terribile ma risparmia donne e bambini. Invece nella mafia dominata dai Corleonesi tutti sono carne da macello, anche i bambini.
Nel 1992 Cosa Nostra ha massacrato in due distinti attentati, a 57 giorni l’uno dall’altro, i magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Nel primo attentato, il 23 maggio a Capaci, persero la vita anche la moglie di Falcone, Francesca Morvillo, e tre uomini della scorta. Il 19 luglio in via d’Amelio, a Palermo, con Paolo Borsellino morirono quattro agenti di scorta. Un pentito di mafia, Gioacchino La Barbera, ha rivelato due anni più tardi che Salvatore Riina, il capo dei capi di Cosa Nostra, non era sazio di tutto quel sangue, e progettava un’altra strage. Un’autobomba doveva esplodere in pieno giorno in una piazza di Trapani per fare a pezzi un boss mafioso ritenuto non più affidabile. Il piano venne discusso nell’estate del ’92 in una villa di Mazara del Vallo. La Barbera ha detto che erano presenti, oltre a Salvatore Riina, suo cognato Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca, Antonino Gioè e lo stesso la Barbera. Gioè suggerì di non usare un’autobomba, perché quella piazza di Trapani era sempre molto affollata e c’era il rischio di fare molte vittime, anche bambini. Ma non convinse Riina. Era in corso, all’epoca, la tragica guerra civile in Jugoslavia. Riina disse: “A Sarajevo muoiono tanti  bambini, perché dobbiamo preoccuparci noi?”.
L’attentato a Trapani  poi non ci fu. Ma nel corso del 1993, anche se Riina era stato arrestato proprio all’inizio dell’anno, il 15 gennaio, i corleonesi decisero di esportare al di là della Sicilia la loro guerra allo Stato a colpi di autobombe, per costringere le istituzioni a cedere sul carcere duro ai mafiosi e a revocare le norme che premiavano i pentiti. E così il 14 maggio una autobomba esplose in via Fauro a Roma, e solo per miracolo il giornalista Maurizio Costanzo, che era l’obiettivo dell’attentato, scampò alla morte, e altrettanto per miracolo non ci furono altre vittime. Tredici giorni più tardi, il 27 maggio, il tritolo devastò il centro di Firenze. L’obiettivo era la Galleria degli Uffizi e i tesori dell’arte. Nadia e Caterina, con i loro genitori e lo studente Dario Capolicchio, furono le vittime collaterali di quella sciagurata strategia di attacco al cuore dello Stato. Ma i mafiosi non si fermarono. Nella notte fra il 27 e il 28 luglio due autobombe esplosero a Roma, davanti alla basilica di San Giovanni in Laterano e alla chiesa di San Giorgio al Velabro. Non ci furono vittime ma feriti e distruzioni. Pochi minuti più tardi, in via Palestro a Milano, davanti al Padiglione di arte contemporanea, un’altra tremenda esplosione uccise tre vigili del fuoco, un vigile urbano e un immigrato che dormiva su una panchina. Alcuni mesi più tardi, nel gennaio ’94, una autobomba doveva esplodere davanti allo stadio Olimpico di Roma. L’obiettivo era uccidere decine di carabinieri. Il telecomando non funzionò.
Nel frattempo Cosa Nostra aveva commesso un altro gravissimo crimine contro un bambino. Il 23 novembre 1993 era stato rapito ad Altofonte, in Sicilia, Giuseppe Di Matteo, 12 anni, figlio del boss pentito Santino Di Matteo. I mafiosi si travestirono da poliziotti e prelevarono il bambino al maneggio, dove si esercitava a diventare un bravo cavaliere. Uno dei sequestratori era Gaspare Spatuzza, feroce sicario ed esplosivista che in carcere, nel 2008, in seguito a una autentica conversione religiosa, si è pentito e ha svelato molti dei misteri di quella stagione feroce. I falsi poliziotti dissero al piccolo Giuseppe che lo avrebbero portato dal padre, che da tempo era nascosto sotto protezione. Ha raccontato Spatuzza: “Agli occhi del bambino siamo apparsi degli angeli, ma in realtà eravamo dei lupi. Lui era felice, diceva: Papà mio, amore mio”. Invece i falsi poliziotti lo legarono e poi lo consegnarono ai carcerieri. Giuseppe fu tenuto sotto sequestro per 779 giorni, finché l’11 gennaio 1996, quando era già tanto debole per effetto della dura prigionia, fu strangolato e sciolto nell’acido. Aveva solo 14 anni.
All’epoca del tragico rapimento di Giuseppe Di Matteo, Spatuzza era ancora un soldato ubbidiente ma cominciava a non capire. Gli dicevano di fare gli attentati (i “bingo” li chiamavano) e lui eseguiva. Ma non comprendeva gli obiettivi. Così un giorno dell’autunno ’93, nel corso di un incontro con il suo capo, il boss di Brancaccio Giuseppe Graviano, dopo aver saputo che bisognava organizzare un attentato contro i carabinieri, non riuscì a nascondere il suo disorientamento. E disse: “Non è che ci siamo portati dietro un po’ di morti che non ci appartengono?” Anzi disse in siciliano “un po’ di tonnina”, tonni uccisi nella mattanza. Il 3 febbraio 2011, in aula bunker a Firenze, Spatuzza ha rievocato quei momenti: “Giuseppe Graviano ha notato la mia debolezza. Avere il cuore è una debolezza per Cosa Nostra. E ha detto: è bene che ci portiamo un po’ di morti, così si smuovono”.
Spatuzza obbediva ma continuava a non capire. E in udienza ha spiegato: “Abbiamo dato l’esplosivo per Capaci e ne abbiamo tanto gioito. Ho partecipato alla strage di via d’Amelio. Capaci ci appartiene, via d’Amelio ci appartiene… Ma i morti di Firenze e di Milano no. Io sentivo il malessere per la bambina di Firenze. E solo da poco, mi scuso, ho capito che le bambine uccise erano due, Nadia e Caterina. Ora mi inginocchio davanti allo Stato e chiedo perdono”. “Sono arrivato in questa città, a Firenze, da terrorista”,  aveva detto in apertura di udienza: “Il nostro obiettivo era di colpirla nel cuore e ci siamo riusciti. Oggi dopo 18 anni vengo come collaboratore di giustizia, come uomo e soprattutto come pentito. Chiedo perdono. So che questa richiesta di perdono può essere strumentalizzata, accettata o no, ma è mio dovere farla per questa città che ho sfregiato nel cuore”.
Nadia Nencioni avrebbe oggi 28 anni e mezzo. Caterina avrebbe compiuto da poco 20 anni. Ci sono uomini, in carcere e fuori, che hanno spezzato le loro vite innocenti e che forse ne provano rimorso. Forse non hanno pace, ed è bene che sia così. Oggi potrebbero rendere un briciolo di giustizia alle due bambine e alle innumerevoli vittime della ferocia delle mafie se, come Spatuzza, si decidessero a raccontare ciò che sanno e a svelare i misteri ancora irrisolti di quella stagione di sangue.

Franca Selvatici
La Repubblica

                                                                                                                                           

● IL "FAGOTTO" BIANCO

Il telefono trilla. Mi scuso con i commensali di questa cena bizzarra. C'e' una miliardaria giapponese, vedova, veste di rosa, sempre. 
È Pierandrea, il capo. "Dove sei?" chiede ansimando. 
Guardo l'orologio. "Mi avete mandato a fare quest'intervista al Forte. Perche'?". 
"Ah... Rientra subito". 
"Ma che e' successo?". 
"Hanno messo una bomba. È esplosa". La linea è disturbata. Riesco solo a sentire "... Ponte Vecchio".
Le arterie pompano gelo. Saluto da maleducato. Balzo in auto, i pistoni suonano l'Aida in questa strana notte di fine maggio.
Il viaggio dura poco. Interrotto solo da due telefonate. 
La prima mi intima di rientrare in redazione, alla Nazione. La seconda mi dice che c'è stato un botto, dietro gli Uffizi. Ci sono danni. E feriti. Non si capisce cos'è successo. " È un caos. Via dei Georgofili. La torre. Vai li'. Punto".
Quando arrivo Firenze è ferita. 
Sono saltate le vetrate fino a Palazzo Vecchio. Non ci si può avvicinare. Non oltre l'arco che porta all'inferno, sotto il loggiato vasariano. Sono qui, nel cortile degli Uffizi, accanto ai colleghi. Cerco di capire. Vedo solo vigili del fuoco. I nostri eroi. Sono nuvole di polvere. Impazzano lampeggianti e torce elettriche. Annoto, scrivo tutto, anche il niente. Perché in questi momenti vai in automatico. Arriva Morales, il sindaco. Iniziano a circolare le notizie. Le prime. Frammentarie. Un morto. No, due. L'Antico Fattore, il ristorante, è saltato in aria. È crollata una palazzina. Ci sono danni agli Uffizi.
Che diavolo è successo?
Esce un vigile. L'atmosfera, surreale, va al ralenty. Porta con sé, stretto al cuore, un fagotto bianco. L'immagine schizza via in un amen. C'è un'ambulanza col muso verso l'Arno. Attacca la sirena. Fa inversione a U. Parte verso via della Ninna. La sirena è un urlo disperato, un lamento che si spegne davanti a San Pier Scheraggio. Spenta la sirena. Spento il lampeggiante. Spenta una piccola vita. Passo dal giornale. E' tutto acceso. "Adesso andate a dormire, ci sentiamo domattina. Dicono che è stata una fuga di gas".
C'e' sempre una fuga di gas...
Penso a Palermo. Alla temperatura incandescente. A Falcone. A Borsellino. Perché le bombe sono state quelle. Le più recenti. Ma Firenze che c'entra?
Fatico a prender sonno. Chiudo gli occhi. Mi sveglia il trillo del telefono. "Sono Umberto. Corri. Facciamo la straordinaria".
Venti anni dopo, il volto segnato dal tempo, la stessa fame di sapere. Ho letto tutto ciò che è umanamente possibile su mafia, inchieste, depistaggi. 
Trattativa Stato-mafia? Più che altro, forse, un rinnovo. Con termini differenti. Passeggio per via Georgofili. Guardo il falso palazzo. L'ulivo. Le lapidi. Penso alle vittime. Ai loro familiari. Agli amici. E a quella ferita della mia Firenze. Ne ho parlato tante volte con Piero. Lo chiamavano Pierluigi, ma lui era Piero. "Quello era un segnale. Ma non ho trovato il terzo livello".
Dan Brown ha scritto l'Inferno. Io l'ho visto.

Gianluca Tenti
Giornalista, scrittore
Fiorentino
                                                                                                                                            


● NON ESISTE UN'ETÀ PER ANDARE IN PARADISO

Ci sono ricordi che piano piano sbiadiscono nella memoria. Sono come fotografie a colori che sembrano diventare di seppia; sono come immagini sulle quali si deposita ogni giorno un po’ di polvere fresca fino a farle diventare uniformi. Ma non c’è niente di più feroce, di più abbarbicato nella memoria della morte di una persona qualunque. Se si tratta di una bambina poi, è un dramma. Una ferita sanguinante sul cuore. 
Non la conoscevo Caterina Nencioni, ma ero lì accanto a loro quando due vigili del fuoco hanno estratto scavando con le mani dalle macerie della Torre del Pulci quel fagottino. Erano le 4,20 di giovedì 27 maggio 1993. 
Quanto è stata breve la sua vita, solo un riassunto. Era nata per amore il 6 aprile, Caterina, è la più piccola vittima di mafia: cinquantuno giorni in tutto.
Quella immagine non la scorderò mai più. E saremo in tanti, almeno tutti quelli che erano lì, tra la Torre del Pulci e il piazzale delle Uffizi quella maledettissima notte. Ci sono poliziotti avvezzi al dolore, vigili del fuoco che ne hanno viste di tutte. Eppure non sono solo io a sentirmi il viso caldo e sporco. A sentire sulla pelle quelle lacrime che scendono a rigare la guancia in un silenzio assordante. Un cordone di poliziotti attorno a quell’ambulanza quasi  appoggiata al muro per non intralciare il lavoro al piazzale degli Uffizi, un medico e due infermiere che prendono dalle mani del pompiere diventata d’un colpo il più famoso al mondo, all’epoca, il corpo inerte della piccina. 
L’unico rumore è quello delle fotoelettriche che illuminano lo sbrano alla cultura, alla vita, alla società civile ai Georgofili. Caterina ha gli occhi chiusi, le braccia inerti. Da 4 ore circa è sepolta sotto le macerie. E’ morta, tutti lo sanno, nessuno lo dice. (......)  La porta dell’ambulanza si chiude. Tutti, e dico tutti, ammutoliscono. L’ambulanza sembra voler partire per l’ospedale, singhiozza e fa roteare il lampeggiante che fulmina tutti i presenti trovandoli attoniti. Un paio di metri neppure poi l’ambulanza si ferma. Il portello posteriore si apre in un gesto di pietas umana: il medico guarda tutti e nessuno, poi scuote la testa e abbasa la sguardo. Piango. Piangono in diversi, senza ritegno, senza vergogna. Caterina Nencioni, prima vittima della mafia nella strage dei Georgofili di Firenze se n’è andata.
Pochi minuti Nadia (aveva solo 9 anni) raggiunge la sorellina nel paradiso degli innocenti. «Il pomeriggio se ne va/ il tramonto si avvicina/ un momento stupendo/ Il sole sta andando via (a letto)/ E’ già sera tutto è finito» poco tempo prima aveva scritto questa poesia.
Se non è barbarie questa...Qualche giorno dopo è freddo dentro, terribilmente freddo quando i corpicini delle sorelle, assieme a quelli del papà Fabrizio Nencioni (39 anni) e Angela Fiume (36 anni) vengono esposti al pubblico dolore alle Cappelle del Commiato.
Non è possibile, umanamente, resistere a tanto scempio. 
Caterina è così piccola sul quel lettino metallico. È quasi più bianca del lenzuolo bianco sulla quale è adagiata. Il suo vestitino azzurro, gli occhi chiusi. Una bambina addormentata, come quando i piccoli fanno il diavolo a quattro per tutto il giorno, che sembrano aver ingoiato l’argento vivo, e all’improvviso si accasciano e dormono. Come una ballerina di pezza cui hanno tagliato i fili. 
Nadia è lì nel letto alla sua destra. Accanto al suo corpicino la sorpresa dell’ ovino Kinder, come le hanno chiamate tutti i bambini: un giocattolino colorato che solo a medicina legale è stato recuperato. Quando il medico le ha aperto delicatamente la mano.
Non esiste un’età per morire, ma due bambine non devono comunque morire. Per una bomba? È tutto così assurdo. Quella notte non si sa ancora con certezza di cosa si è trattato. Quando un vigile del fuoco lancia un grido: «Qui c’è gente. C’è un morto». Nelle stanze alte, nel palazzo di dietro che ospitava il ristorante l’Antico Fattore, hanno trovato il corpo di Dario Capolicchio. (......) Fino al mattino del giorno successivo quando ritorno a casa. Polveroso, sporco, angosciato. E lo ricordo ancora, con una profonda sensazione di impotenza dentro il cuore.
Ognuno ha una storia da raccontare in relazione a quella sera. Io so una cosa per certo: se non fosse stato per uno scherzo al mio capo, quella notte forse sarei morto lì, assieme a lui e a uno sparuto gruppetto di colleghi della Nazione. Giornalisti vecchio stampo, che ancora amavano scrivere con la vecchia Olivetti per poi sollevare la macchina e buttare giù un titolo, un appunto su un foglio di carta da bozze. Gente che mangiava quando se lo ricordava, che buttava giù Coca Cola e Optalidon quando la testa pulsava forte.
Bene quella sera avevamo chiuso tardi la prima edizione, dopo le 23, ed eravano andati in centro a cercare una trattoria, qualcuno che ci desse qualcosa da mangiare. Un ‘cinese’ in via Condotta ci aprì le porte. Dopo cena una passeggiata per le strade del centro ad ascoltare un affabulatore come Umberto Cecchi, il vicedirettore, che raccontava aneddoti straordinari su Firenze. Non si era accorto, Cecchi, che al ristorante gli avevamo nascosto il telefonino. Verso mezzanotte e quaranta eravamo appunto lì agli Uffizi, quasi da soli, ad ascoltare Cecchi che all’improvviso si è messo a cercare in tasca il telefonino. «L’avrai dimenticato al ristorante...ormai sarà chiuso». Di buon passo siamo tornati indietro e solo in piazza San Firenze, dove avevamo lasciato le macchine gli abbiamo restituito il cellulare. Era troppo tardi per tornare indietro e riprendere la ‘novella’. Alle una meno cinque ce ne siamo andati. Alle 1,07 dice la storia, la torre del Pulci è saltata in aria, con il suo carico di morti innocenti. E con lei una Firenze che per un po’ sembrava piuttosto Beirut.

Amadore Agostini
Giornalista de la Nazione




Disegno di Nadia Nencioni realizzato il 24 maggio, pochi giorni prima della strage