lunedì 13 maggio 2013

NON ESISTE UN'ETÀ PER ANDARE IN PARADISO




Ci sono ricordi che piano piano sbiadiscono nella memoria. Sono come fotografie a colori che sembrano diventare di seppia; sono come immagini sulle quali si deposita ogni giorno un po’ di polvere fresca fino a farle diventare uniformi. Ma non c’è niente di più feroce, di più abbarbicato nella memoria della morte di una persona qualunque. Se si tratta di una bambina poi, è un dramma. Una ferita sanguinante sul cuore. 
Non la conoscevo Caterina Nencioni, ma ero lì accanto a loro quando due vigili del fuoco hanno estratto scavando con le mani dalle macerie della Torre del Pulci quel fagottino. Erano le 4,20 di giovedì 27 maggio 1993. 

Quanto è stata breve la sua vita, solo un riassunto. Era nata per amore il 6 aprile, Caterina, è la più piccola vittima di mafia: cinquantuno giorni in tutto.
Quella immagine non la scorderò mai più. E saremo in tanti, almeno tutti quelli che erano lì, tra la Torre del Pulci e il piazzale delle Uffizi quella maledettissima notte. Ci sono poliziotti avvezzi al dolore, vigili del fuoco che ne hanno viste di tutte. Eppure non sono solo io a sentirmi il viso caldo e sporco. A sentire sulla pelle quelle lacrime che scendono a rigare la guancia in un silenzio assordante. Un cordone di poliziotti attorno a quell’ambulanza quasi  appoggiata al muro per non intralciare il lavoro al piazzale degli Uffizi, un medico e due infermiere che prendono dalle mani del pompiere diventata d’un colpo il più famoso al mondo, all’epoca, il corpo inerte della piccina. 
L’unico rumore è quello delle fotoelettriche che illuminano lo sbrano alla cultura, alla vita, alla società civile ai Georgofili. Caterina ha gli occhi chiusi, le braccia inerti. Da 4 ore circa è sepolta sotto le macerie. E’ morta, tutti lo sanno, nessuno lo dice. (......)  La porta dell’ambulanza si chiude. Tutti, e dico tutti, ammutoliscono. L’ambulanza sembra voler partire per l’ospedale, singhiozza e fa roteare il lampeggiante che fulmina tutti i presenti trovandoli attoniti. Un paio di metri neppure poi l’ambulanza si ferma. Il portello posteriore si apre in un gesto di pietas umana: il medico guarda tutti e nessuno, poi scuote la testa e abbasa la sguardo. Piango. Piangono in diversi, senza ritegno, senza vergogna. Caterina Nencioni, prima vittima della mafia nella strage dei Georgofili di Firenze se n’è andata.
Pochi minuti Nadia (aveva solo 9 anni) raggiunge la sorellina nel paradiso degli innocenti. «Il pomeriggio se ne va/ il tramonto si avvicina/ un momento stupendo/ Il sole sta andando via (a letto)/ E’ già sera tutto è finito» poco tempo prima aveva scritto questa poesia.
Se non è barbarie questa...Qualche giorno dopo è freddo dentro, terribilmente freddo quando i corpicini delle sorelle, assieme a quelli del papà Fabrizio Nencioni (39 anni) e Angela Fiume (36 anni) vengono esposti al pubblico dolore alle Cappelle del Commiato.
Non è possibile, umanamente, resistere a tanto scempio. 
Caterina è così piccola sul quel lettino metallico. È quasi più bianca del lenzuolo bianco sulla quale è adagiata. Il suo vestitino azzurro, gli occhi chiusi. Una bambina addormentata, come quando i piccoli fanno il diavolo a quattro per tutto il giorno, che sembrano aver ingoiato l’argento vivo, e all’improvviso si accasciano e dormono. Come una ballerina di pezza cui hanno tagliato i fili. 
Nadia è lì nel letto alla sua destra. Accanto al suo corpicino la sorpresa dell’ ovino Kinder, come le hanno chiamate tutti i bambini: un giocattolino colorato che solo a medicina legale è stato recuperato. Quando il medico le ha aperto delicatamente la mano.
Non esiste un’età per morire, ma due bambine non devono comunque morire. Per una bomba? È tutto così assurdo. Quella notte non si sa ancora con certezza di cosa si è trattato. Quando un vigile del fuoco lancia un grido: «Qui c’è gente. C’è un morto». Nelle stanze alte, nel palazzo di dietro che ospitava il ristorante l’Antico Fattore, hanno trovato il corpo di Dario Capolicchio. (......) Fino al mattino del giorno successivo quando ritorno a casa. Polveroso, sporco, angosciato. E lo ricordo ancora, con una profonda sensazione di impotenza dentro il cuore.
Ognuno ha una storia da raccontare in relazione a quella sera. Io so una cosa per certo: se non fosse stato per uno scherzo al mio capo, quella notte forse sarei morto lì, assieme a lui e a uno sparuto gruppetto di colleghi della Nazione. Giornalisti vecchio stampo, che ancora amavano scrivere con la vecchia Olivetti per poi sollevare la macchina e buttare giù un titolo, un appunto su un foglio di carta da bozze. Gente che mangiava quando se lo ricordava, che buttava giù Coca Cola e Optalidon quando la testa pulsava forte.
Bene quella sera avevamo chiuso tardi la prima edizione, dopo le 23, ed eravano andati in centro a cercare una trattoria, qualcuno che ci desse qualcosa da mangiare. Un ‘cinese’ in via Condotta ci aprì le porte. Dopo cena una passeggiata per le strade del centro ad ascoltare un affabulatore come Umberto Cecchi, il vicedirettore, che raccontava aneddoti straordinari su Firenze. Non si era accorto, Cecchi, che al ristorante gli avevamo nascosto il telefonino. Verso mezzanotte e quaranta eravamo appunto lì agli Uffizi, quasi da soli, ad ascoltare Cecchi che all’improvviso si è messo a cercare in tasca il telefonino. «L’avrai dimenticato al ristorante...ormai sarà chiuso». Di buon passo siamo tornati indietro e solo in piazza San Firenze, dove avevamo lasciato le macchine gli abbiamo restituito il cellulare. Era troppo tardi per tornare indietro e riprendere la ‘novella’. Alle una meno cinque ce ne siamo andati. Alle 1,07 dice la storia, la torre del Pulci è saltata in aria, con il suo carico di morti innocenti. E con lei una Firenze che per un po’ sembrava piuttosto Beirut.

Amadore Agostini
Giornalista de la Nazione




Disegno di Nadia Nencioni realizzato il 24 maggio 1993, pochi giorni prima della strage