mercoledì 22 maggio 2013

LA MAFIA E I BAMBINI




Nadia aveva 8 anni e mezzo. Sua sorella Caterina aveva appena 50 giorni. Era nata il 6 aprile 1993. Era stata appena battezzata. Tutte e due sono morte, insieme con i loro genitori, Fabrizio Nencioni e Angela Fiume, nello spaventoso attentato che il 27 maggio 1993 distrusse via de’ Georgofili e devastò il cuore di Firenze. Angela, la loro mamma, era la custode dell’Accademia dei Georgofili, che crollò per effetto dell’esplosione di un ordigno composto da 250 chili di tritolo, T4, pentrite e nitroglicerina. La bomba era nascosta in un Furgone Fiat Fiorino parcheggiato sotto la Torre de’ Pulci, sede dell’Accademia. Mentre Nadia e Caterina morivano schiacciate dalle macerie, nel palazzo di fronte uno studente di architettura di 22 anni, Dario Capolicchio, veniva sopraffatto dalle fiamme sprigionate  dall’esplosione.

Nei film sulla mafia, e soprattutto nella celebre serie del “Padrino”, la violenza è cosa fra uomini. E’ terribile ma risparmia donne e bambini. Invece nella mafia dominata dai Corleonesi tutti sono carne da macello, anche i bambini.
Nel 1992 Cosa Nostra ha massacrato in due distinti attentati, a 57 giorni l’uno dall’altro, i magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Nel primo attentato, il 23 maggio a Capaci, persero la vita anche la moglie di Falcone, Francesca Morvillo, e tre uomini della scorta. Il 19 luglio in via d’Amelio, a Palermo, con Paolo Borsellino morirono quattro agenti di scorta. Un pentito di mafia, Gioacchino La Barbera, ha rivelato due anni più tardi che Salvatore Riina, il capo dei capi di Cosa Nostra, non era sazio di tutto quel sangue, e progettava un’altra strage. Un’autobomba doveva esplodere in pieno giorno in una piazza di Trapani per fare a pezzi un boss mafioso ritenuto non più affidabile. Il piano venne discusso nell’estate del ’92 in una villa di Mazara del Vallo. La Barbera ha detto che erano presenti, oltre a Salvatore Riina, suo cognato Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca, Antonino Gioè e lo stesso la Barbera. Gioè suggerì di non usare un’autobomba, perché quella piazza di Trapani era sempre molto affollata e c’era il rischio di fare molte vittime, anche bambini. Ma non convinse Riina. Era in corso, all’epoca, la tragica guerra civile in Jugoslavia. Riina disse: “A Sarajevo muoiono tanti  bambini, perché dobbiamo preoccuparci noi?”.
L’attentato a Trapani  poi non ci fu. Ma nel corso del 1993, anche se Riina era stato arrestato proprio all’inizio dell’anno, il 15 gennaio, i corleonesi decisero di esportare al di là della Sicilia la loro guerra allo Stato a colpi di autobombe, per costringere le istituzioni a cedere sul carcere duro ai mafiosi e a revocare le norme che premiavano i pentiti. E così il 14 maggio una autobomba esplose in via Fauro a Roma, e solo per miracolo il giornalista Maurizio Costanzo, che era l’obiettivo dell’attentato, scampò alla morte, e altrettanto per miracolo non ci furono altre vittime. Tredici giorni più tardi, il 27 maggio, il tritolo devastò il centro di Firenze. L’obiettivo era la Galleria degli Uffizi e i tesori dell’arte. Nadia e Caterina, con i loro genitori e lo studente Dario Capolicchio, furono le vittime collaterali di quella sciagurata strategia di attacco al cuore dello Stato. Ma i mafiosi non si fermarono. Nella notte fra il 27 e il 28 luglio due autobombe esplosero a Roma, davanti alla basilica di San Giovanni in Laterano e alla chiesa di San Giorgio al Velabro. Non ci furono vittime ma feriti e distruzioni. Pochi minuti più tardi, in via Palestro a Milano, davanti al Padiglione di arte contemporanea, un’altra tremenda esplosione uccise tre vigili del fuoco, un vigile urbano e un immigrato che dormiva su una panchina. Alcuni mesi più tardi, nel gennaio ’94, una autobomba doveva esplodere davanti allo stadio Olimpico di Roma. L’obiettivo era uccidere decine di carabinieri. Il telecomando non funzionò.
Nel frattempo Cosa Nostra aveva commesso un altro gravissimo crimine contro un bambino. Il 23 novembre 1993 era stato rapito ad Altofonte, in Sicilia, Giuseppe Di Matteo, 12 anni, figlio del boss pentito Santino Di Matteo. I mafiosi si travestirono da poliziotti e prelevarono il bambino al maneggio, dove si esercitava a diventare un bravo cavaliere. Uno dei sequestratori era Gaspare Spatuzza, feroce sicario ed esplosivista che in carcere, nel 2008, in seguito a una autentica conversione religiosa, si è pentito e ha svelato molti dei misteri di quella stagione feroce. I falsi poliziotti dissero al piccolo Giuseppe che lo avrebbero portato dal padre, che da tempo era nascosto sotto protezione. Ha raccontato Spatuzza: “Agli occhi del bambino siamo apparsi degli angeli, ma in realtà eravamo dei lupi. Lui era felice, diceva: Papà mio, amore mio”. Invece i falsi poliziotti lo legarono e poi lo consegnarono ai carcerieri. Giuseppe fu tenuto sotto sequestro per 779 giorni, finché l’11 gennaio 1996, quando era già tanto debole per effetto della dura prigionia, fu strangolato e sciolto nell’acido. Aveva solo 14 anni.
All’epoca del tragico rapimento di Giuseppe Di Matteo, Spatuzza era ancora un soldato ubbidiente ma cominciava a non capire. Gli dicevano di fare gli attentati (i “bingo” li chiamavano) e lui eseguiva. Ma non comprendeva gli obiettivi. Così un giorno dell’autunno ’93, nel corso di un incontro con il suo capo, il boss di Brancaccio Giuseppe Graviano, dopo aver saputo che bisognava organizzare un attentato contro i carabinieri, non riuscì a nascondere il suo disorientamento. E disse: “Non è che ci siamo portati dietro un po’ di morti che non ci appartengono?” Anzi disse in siciliano “un po’ di tonnina”, tonni uccisi nella mattanza. Il 3 febbraio 2011, in aula bunker a Firenze, Spatuzza ha rievocato quei momenti: “Giuseppe Graviano ha notato la mia debolezza. Avere il cuore è una debolezza per Cosa Nostra. E ha detto: è bene che ci portiamo un po’ di morti, così si smuovono”.
Spatuzza obbediva ma continuava a non capire. E in udienza ha spiegato: “Abbiamo dato l’esplosivo per Capaci e ne abbiamo tanto gioito. Ho partecipato alla strage di via d’Amelio. Capaci ci appartiene, via d’Amelio ci appartiene… Ma i morti di Firenze e di Milano no. Io sentivo il malessere per la bambina di Firenze. E solo da poco, mi scuso, ho capito che le bambine uccise erano due, Nadia e Caterina. Ora mi inginocchio davanti allo Stato e chiedo perdono”. “Sono arrivato in questa città, a Firenze, da terrorista”,  aveva detto in apertura di udienza: “Il nostro obiettivo era di colpirla nel cuore e ci siamo riusciti. Oggi dopo 18 anni vengo come collaboratore di giustizia, come uomo e soprattutto come pentito. Chiedo perdono. So che questa richiesta di perdono può essere strumentalizzata, accettata o no, ma è mio dovere farla per questa città che ho sfregiato nel cuore”.
Nadia Nencioni avrebbe oggi 28 anni e mezzo. Caterina avrebbe compiuto da poco 20 anni. Ci sono uomini, in carcere e fuori, che hanno spezzato le loro vite innocenti e che forse ne provano rimorso. Forse non hanno pace, ed è bene che sia così. Oggi potrebbero rendere un briciolo di giustizia alle due bambine e alle innumerevoli vittime della ferocia delle mafie se, come Spatuzza, si decidessero a raccontare ciò che sanno e a svelare i misteri ancora irrisolti di quella stagione di sangue.

Franca Selvatici
La Repubblica